La bellezza – Federico Colli racconta il programma di Garden Hall

Che cosa accomuna un esule italiano del XVII secolo, frustrato ed incompreso, asservito e visionario, con un burbero tedesco del XVIII secolo, che fu spartiacque, profeta, crociato e sacerdote, con un donnaiolo russo del XX secolo, umiliato prima e glorificato poi, sgomento ma libero, angosciato, inquieto e beffardo?

Questa la domanda: kafkiana. La risposta arriverà alla fine di queste poche righe, e sarà come l’immagine dei cavalli nei film di Tarkovsky: evocativa.

 

Di Scarlatti conosciamo ben poco: abbiamo pochissimi scritti, solo un ritratto, storie tramandate per sentito dire. Ma giacché l’assenza del documento non è il documento dell’assenza, possiamo sapere attraverso la sua musica che la sua personalità è forse una tra le più sfaccettate della storia della musica.

Spinto dal padre ad intraprendere la carriera operistica, trovò nella forma strumentale – in un momento in cui la forma strumentale era di categoria infima – l’unico suo possibile viatico di espressione. Emigrato in Portogallo prima, in Spagna poi in cerca di quell’affermazione che in Italia mancava, incespicò sul suo cammino in vere e proprie entità divinizzate, Farinelli su tutte, che oscurarono inevitabilmente il suo genio.

Nella sua musica, dalle forme così scarne, immediate ed esili c’è tutto questo: la speranza di una ricompensa, la perseveranza nell’inseguire un ideale, la frustrazione di sentirsi mai al posto giusto, la malinconia del ricordo della terra natia, lontana e sfuocata, la preghiera a Dio, la devozione che spera.

Nella prima sonata (K19) io vedo il lato riflessivo e meditabondo di Scarlatti: quel lato che, nelle Sonate della maturità, lo porterà fin alle soglie del sacro. Nella seconda (K430) vedo lo Scarlatti salottiero, che scrive per compiacere i nobili, senza mai tradire il lampo di genio che abbacina nei secoli. Nell’ultima sonata (K1) io vedo infine la corsa di un uomo affannoso: un uomo che danza nel vortice del suo tempo, che scrive come se abitasse in un’altra epoca, che desidera, semplicemente, come il più umano degli uomini.

 

Šostakovič sta in mezzo a questo programma come l’Innominato nei Promessi Sposi. Credo senza esagerare che a Šostakovič si debba gran parte della salvezza del Bello occidentale. Se Scarlatti fu una tra le personalità più sfaccettate della storia della musica, Šostakovič non solo fu sfaccettato e sfacciato, ma complesso come un calcolo quantistico. È la glorificazione piena del paradosso del mentitore: quando mai hai detto la verità, Dmitrij Dimitrievič? Forse quando scrivevi la tua Lady Macbeth, contestata da Stalin in persona, stigmatizzata dall’Unione dei Compositori? O forse quando rimediavi alle stigmate scrivendo il manifesto positivista della quinta sinfonia? Eri vero quando, beffardo ed incosciente, ti prendevi gioco della tradizione nel primo concerto per pianoforte e orchestra? O quando facevi, della tradizione, il pozzo infinito dove attingere ispirazione e coscienza? Fai come il Dio di Giobbe: rispondimi!

La sua seconda Sonata è un’opera di straordinaria complessità, formale e drammaturgica. Šostakovič ideò questa Sonata in un letto d’ospedale, malato, subito dopo la notizia della morte del suo adorato Maestro di pianoforte. Una coltre di morte ricopre l’intera sonata. L’opera incomincia con delle note veloci alla mano destra, mentre la sinistra intona un canto che è epitaffio funebre e canto dolente: è musica che nasce dal silenzio e noi, ascoltatori ed esecutori, entriamo nel dramma senza preamboli, senza preavviso. Siamo sbattuti nel vento della vita (le note veloci della mano destra) e sentiamo in lontananza una nenia lugubre e sinistra, come l’ululato di una fantasia di Bertrand. Roba da far accapponare la pelle.

Nel secondo movimento compare una danza di valzer lento -lento, ma così lento che sembra un goffo e trasfigurato ballo di ectoplasmi. La musica è scarna e fredda, del freddo siberiano: quello in cui i rettili sono immobili nelle teche, quello in cui si fissa la neve cadere fuori dalla finestra, nell’intirizzita attesa del segno nefasto dei corvi.

Il terzo movimento è sconvolgente e non lascia scampo. È un tema con variazioni, ma variazioni talmente allucinate che il tema sembra scomparire sotto i sudori freddi della febbre. Il tema è lunghissimo, quasi a voler coprire i confini tutti della patria russa, che vanno dal Baltico al Pacifico. Canta di quel dolore prettamente russo che è così profondo ed instancabile, così penoso ed inguaribile. Strizza l’occhio a Scarlatti e Bach quando crea mirabili giochi di polifonia tra le voci. E si conclude con la stessa intenzione dell’inizio: il vento della vita che mai ha cessato di soffiare e di gonfiare le vele della sua immaginazione. Un grandioso arco che copre, con i suoi bagliori apocalittici, l’immortale affresco di un’anima indecifrabile.

 

Beethoven aveva la mia età quando compose la seconda sonata dell’op. 27. È passata alla storia sotto il nome di Chiaro di luna, che un pretenzioso critico gli affibbiò, 30 anni più tardi, durante una gita in barca sul lago dei quattro cantoni. Io, personalmente, dell’immagine candida della luna che si specchia nelle placide acque del lago non ci ho mai visto nulla – quantomeno nulla di buono.

Beethoven era innamorato, di un amore non corrisposto, stava scrivendo il suo testamento di Heiligenstadt, che fu tra le più feroci condanne al destino che la storia ricordi, la sordità inevitabile sopraggiungeva ed incominciava a maturare in lui il tremendo desiderio di essere uomo dimentico tra gli uomini.

Il tema del primo movimento, con quei sol diesis che battono e ribattono come lo scheletro di un lanzichenecco imprigionato nell’intavolato, è una marche funebre: il feretro del suo cuore piange l’amore non corrisposto e passa, dignitosamente, lentamente, davanti ai nostri occhi.

Il secondo movimento è come la corolla di un fiore che si veste dei sogni: l’immagine del suo amore danza sinuosa un minuetto lento, e solo per qualche minuto anche il nostro cuore, insieme a quello di Beethoven, sembra indugiare nel chiarore beato di questo vaneggiamento.

Fino alla corsa infernale del terzo movimento, dove il pugno alzato al cielo di Beethoven irrompe sulla scena con tutta la sua violenza. È un susseguirsi di idee, temi, pulsioni, che mai trovano appagamento. È la discesa nel Mälestrom di un uomo che ha deciso di dichiarare guerra aperta al mondo, e a Dio.

 

Nell’attonito fragore di questa musica, scende il sipario.

Dunque, alla fine, la domanda iniziale: cosa accomuna questi tre geni del pensiero? Quale il filo rosso che interseca personalità così distanti nel tempo?

Scarlatti prima, Šostakovič nel mezzo, Beethoven alla fine: tre anime che hanno assaporato il fiele amaro della vita. Scarlatti nella sua frustrazione, prima nei confronti del padre autoritario, poi dell’aristocrazia spagnola. Šostakovič nella costante e capillare paura, croce di una tirannide totalizzante e angoscia per l’affermazione di un artista come vero artista libero. Beethoven nella tragedia di non poter sentire, di un uomo che poteva comunicare solo attraverso la musica e a cui, dal destino, non era dato udire le proprie meravigliose sentenze.

Tre anime che hanno conosciuto il dolore e l’afflizione, l’infelicità e lo scoramento.

Ma alla fine, la loro risposta alle avversità è ciò che ancora oggi sorprende: solo nella bellezza essi hanno dimorato, solo nella verità dell’arte essi hanno custodito i loro tesori più preziosi. Solo affidandosi a qualcosa d’altro essi hanno saputo sorpassare il dolore e sublimare l’angoscia, solo rimettendosi totalmente nelle mani della bellezza essi hanno saputo glorificare la magnificenza della vita.

Solo guardando alla trascendenza, ai cieli immutabili delle cose alte, essi hanno saputo elevarsi sopra il tempo, solo consegnandosi totalmente alla loro vocazione essi hanno potuto gettare la loro anima al richiamo cangiante dell’immortalità.

Tutto ciò sorprende.
E benché loro fossero geni, baciati sulla fronte da Dio, anche noi nel nostro cammino possiamo imparare da loro. Soprattutto nei tempi dolorosi che stiamo vivendo, la mia speranza è che la bellezza, come radura compassionevole, sia il faro che guidi le nostre vite, la fede che governi le nostre scelte, il balsamo che rinfreschi le nostre cicatrici. Essa è qui, come per Beethoven così per ognuno di noi, ci passa davanti sotto infinite spoglie e ci tende la mano: sta alla nostra coscienza, alla nostra intelligenza, ed infine alla nostra libertà non lasciarla appassire invano.

Federico Colli

GARDEN HALL – Federico Colli pianista

23 luglio 2020, Corte Priore [Calino di Cazzago S.M.]